Quiv’era storiata l’alta gloria
del roman principato, il cui valore
mosse Gregorio a la sua gran vittoria;

i’ dico di Traiano imperadore;
e una vedovella li era al freno,
di lagrime atteggiata e di dolore.
(Canto X, 73-78)
Mentr’io mi dilettava di guardare
l’imagini di tante umilitadi,
e per lo fabbro loro a veder care,

«Ecco di qua, ma fanno i passi radi»,
mormorava il poeta, «molte genti:
questi ne ‘nvieranno a li alti gradi».
(Canto X, 97-102)
Io cominciai: «Maestro, quel ch’io veggio
muovere a noi, non mi sembian persone,
e non so che, sì nel veder vaneggio».

Ed elli a me: «La grave condizione
di lor tormento a terra li rannicchia,
sì che ‘ miei occhi pria n’ebber tencione.

Ma guarda fiso là, e disviticchia
col viso quel che vien sotto a quei sassi:
già scorger puoi come ciascun si picchia».
(Canto X, 112-120)
Così a sé e noi buona ramogna
quell’ombre orando, andavan sotto ‘l pondo,
simile a quel che tal volta si sogna,

disparmente angosciate tutte a tondo
e lasse su per la prima cornice,
purgando la caligine del mondo.
(Canto XI, 25-30)
Vedeva Troia in cenere e in caverne;
o Ilión, come te basso e vile
mostrava il segno che lì si discerne!

Qual di pennel fu maestro o di stile
che ritraesse l’ombre e’ tratti ch’ivi
mirar farieno uno ingegno sottile?
(Canto XII, 61-66)
Più era già per noi del monte vòlto
e del cammin del sole assai più speso
che non stimava l’animo non sciolto,

quando colui che sempre innanzi atteso
andava, cominciò: «Drizza la testa;
non è più tempo di gir sì sospeso.

Vedi colà un angel che s’appresta
per venir verso noi; vedi che torna
dal servigio del dì l’ancella sesta.
(Canto XII, 73-81)
PIM- PKL'2014.3.19.
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