Canto I- Canto II, Inferno
L'artista realizza delle composizioni triangolari posizionandole all'inizio e al termine di ogni cantica (sei in totale). In ognuna di queste, Dezső illustra alcuni dei personaggi presenti all'interno dei tre diversi mondi spirituali.
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;

e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.

Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino

mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle

l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.

Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
(Canto I, 31-51)
Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me,» gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!»

Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patria ambedui.

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
al tempo de li dei falsi e bugiardi.

Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia
poi che il superbo Ilïón fu combusto.
(Canto I, 64- 75)
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore.

Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».
(Canto I, 85-90)
Ma io perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enea, io non Paulo sono:
me degno a ciò né io né altri ’l crede.
(Canto II, 31-33)
Dunque: che è? perché, perché restai?
perché tanta viltà nel core allette?
perché ardire e franchezza non hai?

poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e ’l mio parlar tanto ben ti promette?»
(Canto II, 121-126)
PIM- PKL'2014.3.2.
Per illustrare l'Inferno Fáy Dezső preferisce utilizzare una struttura con cornice quadrata, cosi da sottolineare la "gabbia" in cui si collocano i peccatori ed i mostri.
Per questi ultimi tuttavia l'artista non segue letteralmente le descrizioni presenti nel testo, ma bensi preferisce rappresentarli dal suo punto di vista: fantasiosi e deformi.
Canto III- Canto IV, Inferno
Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.

Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui.
(Canto III, 58-63)
Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che ’nteser le parole crude.

Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.

Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch’attende ciascun uom che Dio non teme.
(Canto III, 100- 108)
Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,

ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch’è porta de la fede che tu credi;

e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.
(Canto IV, 31-39)
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave!

Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.

E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch’io non mi partiva,

disse: «Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti».

E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
(Canto III, 82-96)
PIM- PKL'2014.3.3.
Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia,
e tanto più dolor, che punge a guaio.

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.

Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata

vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
(Canto V, 1-12)
Canto V- VI, Inferno
Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.

La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
(Canto V, 28-33)
Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra.
(Canto VI, 13-18)
sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.
Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
loco se’ messo e hai sì fatta pena,
che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente».

Ed elli a me: «La tua città, ch’è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.
(Canto VI, 45-54)
Li diritti occhi torse allora in biechi;
guardommi un poco, e poi chinò la testa:
cadde con essa a par de li altri ciechi.

E ’l duca disse a me: «Più non si desta
di qua dal suon de l’angelica tromba,
quando verrà la nimica podesta:

ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel ch’in etterno rimbomba».
(Canto Vi, 94-99)
PIM- PKL'2014.3.4.
Canto VII- VIII- IX, Inferno
Corda non pinse mai da sé saetta
che sì corresse via per l’aere snella,
com’io vidi una nave piccioletta

venir per l’acqua verso noi in quella,
sotto ’l governo d’un sol galeoto,
che gridava: «Or se’ giunta, anima fella!».

«Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto»,
disse lo mio segnore «a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il loto».
(Canto VIII, 13-21)
Come fa l’onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s’intoppa,
(Canto VII, 22-23)
PIM- PKL'2014.3.5.
Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?».

E io a lui: «S’i’ vegno, non rimango;
ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?».
Rispuose: «Vedi che son un che piango».

E io a lui: «Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto».

Allor distese al legno ambo le mani;
per che ’l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: «Via costà con li altri cani!».
(Canto VIII, 31-42)
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disio convien che tu goda».

Dopo ciò poco vid’io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.

Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»;
e ’l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co’ denti.
(Canto VIII, 58-63)
E altro disse, ma non l’ho a mente;
però che l’occhio m’avea tutto tratto
ver’ l’alta torre a la cima rovente,

dove in un punto furon dritte ratto
tre furie infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,

e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.

E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l’etterno pianto,
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.
(Canto IX, 34-45)
Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
sì com’a Pola, presso del Carnaro
ch’Italia chiude e suoi termini bagna,

fanno i sepulcri tutt’il loco varo,
così facevan quivi d’ogne parte,
salvo che ’l modo v’era più amaro;

ché tra gli avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran sì del tutto accesi,
che ferro più non chiede verun’arte.
(Canto IX, 112-120)
Canto XII, Inferno
Qual è quel toro che si slaccia in quella
c’ha ricevuto già ’l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella,

vid’io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: «Corri al varco:
mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale».
(Canto XII, 22-27)

e tra ’l piè de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,
come solien nel mondo andare a caccia.

Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette;

e l’un gridò da lungi: «A qual martiro
venite voi che scendete la costa?
Ditel costinci; se non, l’arco tiro».
(Canto XII, 46-63)
Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia
la riviera del sangue in la qual bolle
qual che per violenza in altrui noccia».

Oh cieca cupidigia e ira folle,
che sì ci sproni ne la vita corta,
e ne l’etterna poi sì mal c’immolle!

Io vidi un’ampia fossa in arco torta,
come quella che tutto ’l piano abbraccia,
secondo ch’avea detto la mia scorta;

Or ci movemmo con la scorta fida
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno alte strida.

Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e ’l gran centauro disse: «E’ son tiranni
che dier nel sangue e ne l’aver di piglio.
(Canto XII, 100- 105)
PIM- PKL'2014.3.6.
«Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti, e rompe i muri e l’armi!
Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza!».

Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda
vicino al fin d’i passeggiati marmi.

E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivò la testa e ’l busto,
ma ’n su la riva non trasse la coda.

La faccia sua era faccia d’uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d’un serpente tutto l’altro fusto;

due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ’l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.
(Canto XVII, 1-15)
Canto XVII- XVIII- XIX, Inferno
Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
ne’ quali ’l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi

che dal collo a ciascun pendea una tasca
ch’avea certo colore e certo segno,
e quindi par che ’l loro occhio si pasca.

E com’io riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla vidi azzurro
che d’un leone avea faccia e contegno.

Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un’altra come sangue rossa,
mostrando un’oca bianca più che burro.
(Canto XVII, 52-63)
PIM- PKL'2014.3.7.
I’ m’assettai in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
com’io credetti: ’Fa che tu m’abbracce’.

Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch’i’ montai
con le braccia m’avvinse e mi sostenne
(Canto XVII, 91-96)
di che la prima bolgia era repleta.

Nel fondo erano ignudi i peccatori;
dal mezzo in qua ci venien verso ’l volto,
di là con noi, ma con passi maggiori,

come i Roman per l’essercito molto,
l’anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,

che da l’un lato tutti hanno la fronte
verso ’l castello e vanno a Santo Pietro;
da l’altra sponda vanno verso ’l monte.
(Canto XVIII, 24-33)
Io vidi per le coste e per lo fondo
piena la pietra livida di fóri,
d’un largo tutti e ciascun era tondo.

Non mi parean men ampi né maggiori
che que’ che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco d’i battezzatori;
(Canto XIX, 13-18)
Di sotto al capo mio son li altri tratti
che precedetter me simoneggiando,
per le fessure de la pietra piatti.
(Canto XIX, 73-75)
e vidi gente per lo vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando, al passo
che fanno le letane in questo mondo.

Come ’l viso mi scese in lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso; 12

ché da le reni era tornato ’l volto,
e in dietro venir li convenia,
perché ’l veder dinanzi era lor tolto
(Canto XX, 7-15)
E quella che ricuopre le mammelle,
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogne pilosa pelle, 54

Manto fu, che cercò per terre molte;
poscia si puose là dove nacqu’io;
onde un poco mi piace che m’ascolte.
(Canto XX, 52-57)
Canto XIX- XX, Inferno
Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,
ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro:
«Deh, or mi dì : quanto tesoro volle

Nostro Segnore in prima da san Pietro
ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non ‘Viemmi retro’.

Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l’anima ria.

Però ti sta, ché tu se’ ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch’esser ti fece contra Carlo ardito.

E se non fosse ch’ancor lo mi vieta
la reverenza delle somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,

io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi.
(Canto XIX, 88- 105)
PIM- PKL'2014.3.8.
Canto XXI- XXIII- XXIV, Inferno
che, per veder, non indugia ’l partire:
e vidi dietro a noi un diavol nero
correndo su per lo scoglio venire.

Ahi quant’elli era ne l’aspetto fero!
e quanto mi parea ne l’atto acerbo,
con l’ali aperte e sovra i piè leggero!

L’omero suo, ch’era aguto e superbo,
carcava un peccator con ambo l’anche,
e quei tenea de’ piè ghermito ’l nerbo.

Del nostro ponte disse: «O Malebranche,
ecco un de li anzian di Santa Zita!
Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche

a quella terra che n’è ben fornita:
ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo;
del no, per li denar vi si fa ita».

Là giù ’l buttò, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
con tanta fretta a seguitar lo furo.
(Canto XXI, 28-45)
PIM- PKL'2014.3.9.
già per urlare avrian le bocche aperte;

ché se l’antiveder qui non m’inganna,
prima fien triste che le guance impeli
colui che mo si consola con nanna.

Deh, frate, or fa che più non mi ti celi!
vedi che non pur io, ma questa gente
tutta rimira là dove ‘l sol veli».

Per ch’io a lui: «Se tu riduci a mente
qual fosti meco, e qual io teco fui,
ancor fia grave il memorar presente.

Di quella vita mi volse costui
che mi va innanzi, l’altr’ier, quando tonda
vi si mostrò la suora di colui»,
(Canto XXIII, 108-120)
Più non si vanti Libia con sua rena;
ché se chelidri, iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena,
né tante pestilenzie né sì ree
mostrò già mai con tutta l’Etiopia
né con ciò che di sopra al Mar Rosso è.

Tra questa cruda e tristissima copia
correan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia:

con serpi le man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate.
(Canto XXIV, 85-96)
Canto XXV- XXVI, Inferno
El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: «Ov’è, ov’è l’acerbo?».

Maremma non cred’io che tante n’abbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
infin ove comincia nostra labbia.

Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con l’ali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque s’intoppa.

Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,
che sotto ’l sasso di monte Aventino
di sangue fece spesse volte laco.

Non va co’ suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
del grande armento ch’elli ebbe a vicino;

onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece».
(Canto XXV, 16-33)
E ’l duca che mi vide tanto atteso,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso».

«Maestro mio», rispuos’io, «per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:

chi è ’n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?».

Rispuose a me: «Là dentro si martira
Ulisse e Diomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira;

e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.

Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deidamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta»
(Canto XXVI, 46-63)
PIM- PKL'2014.3.10.
Canto XXVII- XXVIII- XXIX, Inferno
Francesco venne poi com’io fu’ morto,
per me; ma un d’i neri cherubini
li disse: "Non portar: non mi far torto.

Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini
perché diede ’l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a’ crini;

ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente".
(Canto XXVII, 112-120)
o fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, sì cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio venìa intero,

se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,
che mi rimise ne le prime colpe;
e come e quare, voglio che m’intenda.
(Canto XXVII, 67-72)
Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ’l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.

Mentre che tutto in lui veder m’attacco,
guardommi, e con le man s’aperse il petto,
dicendo: «Or vedi com’io mi dilacco!
(Canto XXVIII, 22-30)
E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e però son fessi così.

Un diavolo è qua dietro che n’accisma
sì crudelmente, al taglio de la spada
rimettendo ciascun di questa risma,

quand’avem volta la dolente strada;
però che le ferite son richiuse
prima ch’altri dinanzi li rivada.
(Canto XXVIII, 34-42)
Di sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due:
com’esser può, quei sa che sì governa.

Quando diritto al piè del ponte fue,
levò ’l braccio alto con tutta la testa,
per appressarne le parole sue,

che fuoro: «Or vedi la pena molesta
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s’alcuna è grande come questa.

E perché tu di me novella porti,
sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma’ conforti.

Perch’io parti’ così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio ch’è in questo troncone.

Così s’osserva in me lo contrapasso».
(Canto XXVIII, 124-142)
Qual sovra ’l ventre, e qual sovra le spalle
l’un de l’altro giacea, e qual carpone
si trasmutava per lo tristo calle.

Passo passo andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,
che non potean levar le lor persone.
(Canto XXIX, 67-72)
Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli:
Achitofèl non fé più d’Absalone
e di Davìd coi malvagi punzelli.
PIM- PKL'2014.3.11.
Canto XXX, Inferno
Ed elli a me: «Quell’è l’anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre fuor del dritto amore amica.

Questa a peccar con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma,
come l’altro che là sen va, sostenne,
(Canto XXX, 37-42)

«O voi che sanz’alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo»,
diss’elli a noi, «guardate e attendete

a la miseria del maestro Adamo:
io ebbi vivo assai di quel ch’i’ volli,
e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo.

Li ruscelletti che d’i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,

sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
ché l’imagine lor vie più m’asciuga
che ’l male ond’io nel volto mi discarno.

La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov’io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga.
(Canto XXX, 49-72)
«Qui li trovai - e poi volta non dierno - »,
rispuose, «quando piovvi in questo greppo,
e non credo che dieno in sempiterno.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».

E l’un di lor, che si recò a noia
forse d’esser nomato sì oscuro,
col pugno li percosse l’epa croia.
(Canto XXX, 94-102)
«S’io dissi falso, e tu falsasti il conio»,
disse Sinon; «e son qui per un fallo,
e tu per più ch’alcun altro demonio!».

«Ricorditi, spergiuro, del cavallo»,
rispuose quel ch’avea infiata l’epa;
«e sieti reo che tutto il mondo sallo!».

«E te sia rea la sete onde ti crepa»,
disse ’l Greco, «la lingua, e l’acqua marcia
che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!».


Allora il monetier: «Così si squarcia
la bocca tua per tuo mal come suole;
ché s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia,

tu hai l’arsura e ’l capo che ti duole,
e per leccar lo specchio di Narcisso,
non vorresti a ’nvitar molte parole».
(Canto XXX, 115-129)
Io vidi un, fatto a guisa di leuto,
pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia
tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.

La grave idropesì, che sì dispaia
le membra con l’omor che mal converte,
che ’l viso non risponde a la ventraia,

facea lui tener le labbra aperte
come l’etico fa, che per la sete
l’un verso ’l mento e l’altro in sù rinverte.
PIM- PKL'2014.3.12.
Canto XXXI- XXXII- XXXIII, Inferno
però che come su la cerchia tonda
Montereggion di torri si corona,
così la proda che ’l pozzo circonda

torreggiavan di mezza la persona
li orribili giganti, cui minaccia
Giove del cielo ancora quando tuona.
(Canto XXXI, 40-45)
E ’l duca mio ver lui: «Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand’ira o altra passion ti tocca!

Cércati al collo, e troverai la soga
che ’l tien legato, o anima confusa,
e vedi lui che ’l gran petto ti doga».

Poi disse a me: «Elli stessi s’accusa;
questi è Nembrotto per lo cui mal coto
pur un linguaggio nel mondo non s’usa.

Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;
ché così è a lui ciascun linguaggio
come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto».

Facemmo adunque più lungo viaggio,
vòlti a sinistra; e al trar d’un balestro,
trovammo l’altro assai più fero e maggio.

A cigner lui qual che fosse ’l maestro,
non so io dir, ma el tenea soccinto
dinanzi l’altro e dietro il braccio destro

d’una catena che ’l tenea avvinto
dal collo in giù, sì che ’n su lo scoperto
si ravvolgea infino al giro quinto.
(Canto XXXI, 70-90)
E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor de l’acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana; 33

livide, insin là dove appar vergogna
eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna
(Canto XXXII, 31- 36)
Io non so chi tu se’ né per che modo
venuto se’ qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand’io t’odo.

Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.
(Canto XXXIII, 10-15)
Per ch’io a lui: «Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna,
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna».

Rispuose adunque: «I’ son frate Alberigo;
i’ son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo».
(Canto XXXIII, 115- 120)
PIM- PKL'2014.3.13.
Canto XXXIV, Inferno
«Quell’anima là sù c’ha maggior pena»,
disse ’l maestro, «è Giuda Scariotto,
che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena.

De li altri due c’hanno il capo di sotto,
quel che pende dal nero ceffo è Bruto:
vedi come si storce, e non fa motto!;

e l’altro è Cassio che par sì membruto.
Ma la notte risurge, e oramai
è da partir, ché tutto avem veduto».
(Canto XXXIV, 61-69)
Oh quanto parve a me gran maraviglia
quand’io vidi tre facce a la sua testa!
L’una dinanzi, e quella era vermiglia;

l’altr’eran due, che s’aggiugnieno a questa
sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla,
e sé giugnieno al loco de la cresta:

e la destra parea tra bianca e gialla;
la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla.
(Canto XXXIV, 37-45)
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d’alcun riposo,

salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch’i’ vidi de le cose belle
che porta ’l ciel, per un pertugio tondo.

E quindi uscimmo a riveder le stelle.
(Canto XXXIV, 133-139)
PIM- PKL'2014.3.14.
Visita il Petőfi Irodalmi Múzeum
Károlyi utca 16, 1053
Budapest, Ungheria
Petofi Museum of Literature
Aperto dal martedì
alla domenica: 10:00 - 18:00
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